Il politically correct che fa felici solo i petrolieri
Uno sguardo più approfondito alle tecnologie automobilistiche a idrogeno: sono davvero una soluzione efficace per la decarbonizzazione?
In Italia, il governo insiste sulla neutralità tecnologica, nonostante il recente discorso della presidente della Commissione Europea in cui ha ribadito che “il futuro in Europa è l’elettrico”. Secondo la Meloni, automobili a biodiesel, carburanti sintetici (P2X) e idrogeno dovranno convivere con i modelli full-electric a batteria (BEV).
Conviene veramente diversificare le tecnologie, anche quando una vince nettamente sulle altre per efficienza, tempi di implementazione e costi? Le auto elettriche a idrogeno - FCEV (Fuel Cell Electric Vehicle) - introducono complessità e costose trasformazioni energetiche. Quelle a carburanti sintetici liquidi (P2L) non eliminano le emissioni nocive delle termiche a fonte fossile e possono aumentare quelle climalteranti.
Pensi anche tu, come tanti finora - da Beppe Grillo a Salvini, passando per il fu Piero Angela - che le FCEV siano a emissioni zero, perché emettono solo vapore, e rappresentino il futuro della mobilità automobilistica?
Oggi, mi concentro sulle applicazioni automobilistiche dell’idrogeno, per spiegarti come un futuro basato su questo elemento sia, invece, un’illusione montata ad arte per prolungare la presenza dei combustibili fossili nel mix energetico.
Una ciclo di vita complesso
Oltre il 99% dell’idrogeno attuale proviene da fonte fossile. Tuttavia, nella gran parte dei casi, quando si parla pubblicamente di questo elemento nel contesto della transizione energetica, viene spesso dipinto come una “fonte pulita”.
Ne ho già parlato tempo fa, spiegando come esso, invece, sia un vettore energetico e come solo la sua produzione da fonti rinnovabili possa essere considerata sostenibile.
Va, infatti, valutato il costo energetico, emissivo, sociale e ambientale dell’intero ciclo di vita. Le soluzioni a basso tenore di carbonio più promettenti per estrarre il prezioso gas, in maniera sostenibile e su larga scala, sono attualmente rappresentate da:
Elettrolisi dell’acqua - ovvero l’estrazione di H2 con energia elettrica da fonti rinnovabili
La sua declinazione classica (alcalina), necessita di una produzione continua e ha efficienze relativamente basse (63-76%). E’ la soluzione attualmente più comune per ottenere idrogeno verde
I sistemi più innovativi a PEM (membrana a scambio protonico), si prestano a modulazione della potenza utilizzata, offrendo maggiori flessibilità applicative, ma a costi ben più alti e rapporti di conversione peggiori (56–60%)
Le celle a ossidi solidi (SOEC) ad alta temperatura (500/1000°C) - applicabili in cicli industriali - sono attualmente in sperimentazione, con efficienze variabili generalmente tra il 74 e l’81%, ma potenzialmente fino al 90% recuperando il calore di scarto
Biodigestione anaerobica o trattamento diretto delle biomasse - generalmente scarti agricoli e zootecnici, rifiuti organici urbani o alghe
L’SMR (Steam Methane Reforming) ottiene idrogeno dall’interazione di biometano con il vapore acqueo (reazione primaria: CH4 + H2O → 3H2 + CO e passaggio successivo o “shift”: CO + H2O → CO2 + H2). Ha efficienze simili all’elettrolisi alcalina ed è il sistema attualmente più diffuso per l’idrogeno da metano fossile (grigio)
La pirolisi del biometano evita la produzione di CO2 - lavorando in assenza di ossigeno - seppure si tratti di carbonio biogenico. Sistemi innovativi a scarica ad arco (plasma), a microonde o con reattori termocatalitici ottengono direttamente polvere di carbonio e idrogeno gassoso, rappresentando potenzialmente una soluzione carbon negative
La gassificazione per l’ottenimento di syngas (gas di sintesi, composto principalmente da COx e H2) è un processo maturo, ma non privo di emissioni nocive e generalmente meno efficiente (35-55%), per il costo emissivo del reperimento della biomassa e dei passaggi di catalizzazione necessari a separare l’idrogeno
La dark fermentation è un processo di biodigestione che permette di evitare la fase di metanogenesi batterica, producendo direttamente idrogeno dalla biomassa. Per ora in fase di sperimentazione, è un altro interessante sistema - anch’esso potenzialmente carbon negative - seppure con rendimenti ancora limitati (10-25%) e costi elevati
Strategie fossili
Appare chiaro che l’impiego di energia e di risorse necessarie alla produzione di idrogeno debba giustificarne le rese - energetiche ed economiche - durante il suo utilizzo. Promuovere l’uso di questo combustibile senza valutare le alternative a disposizione e la scalabilità delle tecnologie in gioco è un errore strategico madornale, che rallenta il percorso di decarbonizzazione e ne innalza i costi.
Un gioco politico pericoloso, che compromette gli sforzi per contenere l’aumento delle temperature globali, pur di mantenere le dinamiche di potere attuali - che vedono nell’Oil&Gas un solido bacino elettorale e una fonte di reddito per politici e lobbisti - forti dell’assuefazione del pubblico a un sistema ormai dato per scontato, i cui costi e impatti non sono più in discussione, se mai lo siano stati veramente.
La produzione di idrogeno verde nel mondo è nello stato embrionale: non vi è ancora capacità installata sufficiente neanche per alimentare quei settori industriali - i famosi “hard-to-abate“ come l’acciaio, il cemento, il settore della chimica e i trasporti aerei e navali - ancora privi di soluzioni alternative.
Ogni nuova applicazione di questo gas sottrae risorse preziose a settori che altrimenti manterrebbero inalterate le proprie emissioni di gas serra e apre a un inevitabile greenwashing, nel momento in cui si comunica l’adozione di una “tecnologia pulita”, poiché a emissioni locali nulle, ma si nascondono quelle indirette - equivalenti a quelle delle tecnologie tradizionali, se non addirittura superiori - dovute alla natura fossile degli approvvigionamenti.
Non molto tempo fa, in una Pillola sul tema, ti ho mostrato, per esempio, come Snam e Toyota puntino sulle auto a idrogeno con comunicati che ne lodano le basse emissioni, seppure sia palese che saranno alimentate a gas metano fossile.
Inoltre, ti ho anche spiegato che i meccanismi di tassazione del carbonio - come il CBAM europeo o gli schemi di cap&trade - sono ancora inefficaci nel promuovere l’adozione di soluzioni sostenibili: le quote di emissioni escluse sono ancora troppo alte, i cronoprogrammi eccessivamente dilatati nel tempo e la loro applicazione non ha sortito nessuna accelerazione nello sviluppo di nuove tecnologie sostenibili.
Finché il panorama tecnologico diffuso sarà impostato su tecnologie inefficienti e ancorate alle fonti fossili, ogni tentativo di rimodulare le catene di approvvigionamento energetico di tanti settori industriali con questi schemi - incluso quello automobilistico, che verrà coinvolto nell’ETS europeo dal 2027 - rischia di avere unicamente effetti inflattivi.
L’assenza di coesione politica e di determinazione nel risolvere la crisi climatica con politiche industriali coordinate offre la giustificazione per l’introduzione della ridicola neutralità tecnologica. Presentata come una necessità per accelerare la transizione ecologica dell’industria automobilistica, non è altro che una strategia per contrastare la contrazione del mercato di pertinenza delle società petrolifere, al crescere delle quote dei BEV.
Se con il biodiesel si salvano centinaia di raffinerie europee destinate altrimenti alla dismissione, con l’idrogeno si consolida la quota di metano attualmente in flessione in Europa, per il processo di conversione del sistema energetico. In entrambi i casi, il risultato è di rallentare il processo di elettrificazione, unica strada efficace per ridurre drasticamente il consumo energetico complessivo.
Emissioni di gas serra
La combustione di 1 kg di benzina rilascia circa 2,3 kg di CO₂. Considerando i diversi rendimenti, ne occorrono circa 4.5 kg per fornire la stessa energia primaria di 1 kg di idrogeno, emettendo circa 10 kg CO2.
Le emissioni per ottenere 1 kg di idrogeno cambiano in funzione della tipologia: il grigio da SMR emette 12 kg CO2, il verde da elettrolisi 0.4-2.7 kg CO2 in funzione del tipo di fonte rinnovabile (qui un LCA utilizzato anche dalla IEA come riferimento).
Con un mix europeo sempre più a basso tenore di carbonio - mediamente di 237 gCO2/kWh secondo EMBER, per l’UE 27 - produrre 1 kg idrogeno da elettrolisi con l’elettricità della rete, oggi emetterebbe circa 13 kg CO2.
Considerando che i Paesi che hanno investito massicciamente nello sviluppo delle rinnovabili come Spagna, Austria, Portogallo hanno ormai fattori di emissione sotto i 150 gCO2/kWh - a quali si aggiunge la Francia con il nucleare - è corretto sostenere che la produzione da elettrolisi con il mix di rete (idrogeno giallo) sia già spesso meno inquinante di quella da SMR e fonte fossile (grigio).
Il costo energetico well-to-tank
Se l’obiettivo è quello di accelerare la produzione di H2 e ridurne progressivamente i costi - man mano che le tecnologie consentano flessibilità operativa, scalabilità e fattori di conversione migliori - vanno pianificati distretti in prossimità degli impianti industriali che ne usufruiranno, dando la priorità a quelli in cui l’idrogeno sia l’unica alternativa disponibile per l’abbattimento delle emissioni climalteranti.
Un’analisi anche approssimativa dei rendimenti del ciclo di vita dell’idrogeno per uso automobilistico, infatti, mostra perdite di efficienza sostanziali in ogni fase. Iniziamo da un analisi della fase well-to-tank (WTT), ovvero il costo energetico di generazione, compressione e trasporto fino alla stazione di rifornimento.
Supponiamo di affidarci all’elettrolisi alcalina dell’acqua. In media, con le tecnologie più comuni, generare 1 kg di H2 richiede circa 55 kWh di energia elettrica, ma ne contiene solo 33.3 kWh.
Il gas prodotto va poi stoccato e distribuito. Procedimento complesso, visto che la sua liquefazione richiede temperature di almeno -253°C, con un consumo di almeno 12 kWh/kg, o pressioni di 700 bar, al costo energetico di circa 1.5 kWh/kg.
Inoltre, un kg di idrogeno a pressione ambiente occupa più volume di una betoniera. I serbatoi ad alta pressione ne riducono l’ingombro, ma aumentano peso e costi.
Anche qualora si volesse ricorrere a idrogenodotti, l’impronta energetica e di materiali necessaria per la costruzione di una nuova rete di distribuzione può essere giustificata solo per collegamenti di breve distanza tra i siti di produzione e le utenze, non senza perdite dell’energia utile effettivamente trasportata.
C’è chi parla di utilizzare la fitta rete di gasdotti già esistente, ma lo fa spesso senza cognizione di causa o, peggio, in malafede. La rete metanifera, infatti, lavora a pressioni sensibilmente più basse (≈ 75 bar). Una conversione delle stazioni di compressione, delle valvole di sezionamento e di tutti i sistemi di sicurezza richiede investimenti miliardari e decenni per il loro adeguamento.
Già solo questo aspetto rappresenta un ostacolo strutturale alla scalabilità di una rete capillare di rifornimento, come ne esistono oggi per i carburanti “tradizionali”. Se liberarsi dei combustibili fossili significherebbe dimezzare il traffico navale, con l’idrogeno esso più che raddoppierebbe per trasportare lo stesso quantitativo energetico, sia per le difficoltà sopra menzionate a contenerne il volume, sia per le perdite per evaporazione (boil-off) dieci volte maggiori rispetto a quelle già rilevanti del trasporto di metano.
Allo stesso modo, costi, perdite di gas e traffico di autobotti per il rifornimento delle stazioni di ricarica subirebbero lo stesso aumento.
Appare evidente che se già il prezzo di mercato dell’idrogeno verde sia elevato - attualmente 3-5x quello della controparte fossile - quello all’eventuale pompa di rifornimento per automobili raggiungerebbe costi improponibili per coloro che oggi già protestano per quello, in costante ascesa, di benzina e diesel.
La sconfitta finale nel tank-to-wheel
Se la fase di approvvigionamento è estremamente complessa e dispendiosa, il colpo finale arriva dai rendimenti delle motorizzazioni a idrogeno.
Qui sotto, ti riporto uno schema riassuntivo molto efficace realizzato da Transport & Environment, in cui vengono messe a confronto le tecnologie a idrogeno con quella elettrica a batteria.
Le cifre in nero si riferiscono ai rendimenti misurati nel 2020; quelle gialle, alle stime dei miglioramenti nei processi attese al 2050.
A conferma di quanto ti ho scritto finora, le perdite energetiche dei processi di estrazione e trattamento dell’idrogeno verde - puro per le celle a combustibile (i.e. auto elettriche a idrogeno) o trasformato in carburanti liquidi simili a diesel e benzina - riducono sensibilmente l’energia fornita al veicolo, a parità di elettricità rinnovabile utilizzata in partenza.
Le celle a idrogeno ritrasformano l’energia contenuta nel gas in elettricità, ma con ben il 45% in media di perdite in calore.
Nel caso dei P2L - carburanti liquidi ottenuti da idrogeno rinnovabile - venendo utilizzati in motori termici, producono emissioni nocive equivalenti alle auto a benzina/diesel (CO, HC, NOx, PM…) e hanno gli stessi bassi rendimenti (i.e. perdite del 65-70%).
Pertanto, a parità di energia primaria (55 kWh) necessaria per produrre 1 kg di H2, l’auto elettrica percorre circa 330 km, un’auto a benzina 110 km, una FCEV 127 km e una a benzina sintetica circa 60 km.
Ne consegue che l’auto a batteria sia da 3 a 5.5 volte più efficiente, riducendo costi infrastrutturali, tempi di implementazione, facilità di manutenzione, riciclabilità quasi totale e con costi operativi alla portata degli utenti.
Sto, tra l’altro, escludendo il goffo e insensato tentativo di produrre auto con motore termico, ma alimentato a idrogeno gassoso. Un’idea coltivata per anni da alcuni produttori - in testa BMW e Toyota, guarda caso tra i marchi più lenti a convertire la loro gamma in elettrico - senza nessun criterio energetico o economico sensato, che moltiplica i già bassi rendimenti energetici e i costi elevati della filiera dell’H2 con quelli deludenti di una tecnologia ottocentesca, producendo emissioni nocive (NOx, precursori delle pericolse polveri fini), tanto calore di scarto e rumore.
Un fallimento annunciato
Non è solo una questione di emissioni di carbonio. Sono tanti i punti di caduta delle FCEV anche sul lato pratico:
Prezzo d’acquisto: gli FCEV sono tendenzialmente più cari di quelli a batteria chimica, in media del 15-20%. Ciò rivela una contraddizione profonda dei promotori della neutralità tecnologica, i quali si ostinano a lamentarsi dei prezzi dei BEV, quando sono ormai comparabili - e in alcuni casi inferiori - ai modelli termici tradizionali (ICV).
Costi di manutenzione: al più alto costo operativo si aggiunge quello per riparazioni e sostituzioni sia delle celle a combustibile, sia del sistema di alimentazione, ben più complesso di BEV e ICV, per via delle pressioni in gioco. Inoltre, i meccanismi di degrado delle celle a combustibile - dissoluzione del platino, corrosione, assottigliamento della membrana, aggravati da cicli start/stop, condizioni climatiche e purezza dell’idrogeno fornito - faticano ancora a tenere il passo con i dati reali di usura delle batterie, di cui ho parlato in una Pillola non troppo tempo fa.
Rischi al rifornimento: il passaggio da ICV a BEV elimina virtualmente tutti i rischi di esplosione o incendio e le emissioni cancerogene connessi alle operazioni di rifornimento. Una stazione a idrogeno, invece, ne introduce di nuovi: dalle ustioni a freddo in caso di perdite (i sistemi attuali lavorano a -40°C), all’estrema infiammabilità dell’idrogeno e alla sua bassa energia di innesco, nonché tutti quelli legati alla gestione di un sistema ad alta pressione. Un esempio pratico è l’incidente, nel 2019, in una stazione di servizio a Sandvika, in Norvegia.
I pochi modelli in commercio, la scarsa, scarsissima capillarità dei punti di rifornimento, il ciclo di vita estremamente inquinante - reggendosi oggi unicamente con l’H2 grigio - e i costi superiori alle alternative full-electric hanno riservato al mercato delle auto a idrogeno quote da “errore statistico”. Dal 2023, nel mondo, si vendono più Ferrari che auto a idrogeno.
Al termine del 2024, il parco auto circolante mondiale delle FCEV era inferiore ai 100.000 veicoli, a fronte di quasi 57 milioni di BEV (fonte: IEA). Mentre il mercato delle full-electric a batteria cresce più del 25%/anno, quello delle auto a idrogeno perde circa il 20% per il terzo anno consecutivo.
In Europa, alla fine del 2023, erano registrati un totale di 5.939 veicoli a idrogeno. L’83% dei quali costitutito da automobili. La Germania era in testa, con 2,122 automobili, 149 bus, 30 camion and 16 veicoli commerciali leggeri (fonte: Clean Hydrogen Monitor 2024).
Il goffo tentativo dell’Oil&Gas di costruirsi un nuovo mercato, in un mondo che procede inesorabile nel disfarsi dei carburanti fossili, è fallito nonostante sia partito ben prima dell’avvento dei BEV. In Europa, dopo annunci in pompa magna sui piani di crescita delle infrastrutture di rifornimento, le poche realizzate stanno chiudendo progressivamente.
L’Austria, uno dei primi Paesi europei a investire - fin dal 2012 - in una rete di rifornimento a idrogeno, ha recentemente annunciato la chiusura di tutti gli impianti. Inutili, per un parco circolante di 62 veicoli, di cui solo 5 in mano a privati.
In UK, le 11 stazioni realizzate da Shell, sono state chiuse silenziosamente, per nascondere gli evidenti cedimenti del settore. La Germania era arrivata a 22 stazioni, ma a marzo di quest’anno ha annunciato di volerle chiudere tutte.
Mirare nella giusta direzione
Il danno delle politiche di transizione applicate ai singoli settori industriali senza valutarne le ripercussioni sugli altri, nonché dell’assenza di una strategia organica per collegare la legislazione sulle emissioni a un programma di conversione tecnologica sostenibile è strutturale.
La tecnologia ha sicuramente delle nicchie promettenti, anche sul trasporto su gomma, che possono aiutare ad accelerare la decarbonizzazione del settore, te ne parlerò molto presto. Tuttavia, alla luce dei dati sui risultati del settore, leggere del ministro Salvini, i cui piani puntano ad accordi con BMW e Toyota (coincidenza?) e prevedono 27.000 veicoli in circolazione in Italia entro la fine dell’anno, 8.5 mln entro il 2050 - il 20% del parco circolante attuale - e la realizzazione di 197 stazioni di rifornimento, aiuta a comprendere l’ammontare di promesse a vuoto e piani senza criterio di cui quest’uomo sia capace.
Sono due i motivi fondamentali per cui questo gas non dovrebbe assolutamente essere incluso nei piani di conversione del parco auto nazionale:
Perché sottrarre risorse prioritarie per l’industria pesante, il cemento, la chimica e il traffico aereo e navale, in un momento in cui la produzione di idrogeno verde (e di biometano) è ancora estremamente limitata, è semplicemente irresponsabile. I costi di adeguamento di questi settori aumenteranno con il ritardo accumulato e il Paese rischia sanzioni per gli sforamenti delle emissioni.
Perché la crescita europea di solare ed eolico, negli ultimi cinque anni, ha evitato complessivamente 736 TWh di generazione da fonti fossili, ovvero l’equivalente delle emissioni dell’intero settore elettrico italiano nello stesso periodo (fonte: Ember). Utilizzare questa preziosa energia elettrica per produrre idrogeno, per poi ritrasformarlo in elettricità, con tutte le perdite annesse, quando la stessa energia può essere usata direttamente per percorrere 3 volte la distanza con auto a batteria, rallenta la decarbonizzazione dell’intero Paese, danneggiando i conti economici di famiglie e imprese.
La sola Gran Bretagna, se tutte le auto fossero convertite a P2L - i carburanti sintetici ottenuti dall’idrogeno tanto amati dai nostri ministri Pichetto e Salvini - necessiterebbe di 410 TWh aggiuntivi e non si libererebbe dallo smog. La conversione in BEV, invece, ne richiederebbe solo 85 TWh (fonte: Carbon Brief), eliminando virtualmente le emissioni nocive.
Infine, mi tocca ripeterlo ogni volta che parlo di mobilità sostenibile: l’occasione della transizione tecnologica è di strategica importanza per la rimodulazione della mobilità nazionale e la riduzione della dipendenza dall’auto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre il parco circolante, incentivando i servizi condivisi, penalizzando il traffico veicolare nei centri urbani e migliorando trasporti di massa e mobilità dolce. Tutte priorità inesistenti nei piani del governo.
Pensi ancora che contrastare la neutralità tecnologica sia una battaglia “ideologica” priva di motivazioni concrete?









